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Il dettato


Quando la maestra diceva dettato erano sudori.

In particolare nella mia memoria si materializza un ricordo autunnale: percepisco la sensazione delle brume mattutine, l’odore di marcescenza delle foglie degli ippocastani che ornavano il parco antistante la scuola.

Vedo l’aula, la vedo grande e molto alta, illuminata da enormi finestroni con i vetri mantenuti dallo stucco rosso; massicci termosifoni di ghisa e delle tende di Juta che quando si abbassavano per ripararci dal sole generavano una luce soffusa giallognola, un caldo oppressivo e un caratteristico odore pungente.

La nostra maestra era una donna piuttosto bassa e decisamente rotondetta, sapeva anche essere affettuosa nei dovuti modi e nei giusti tempi, ma normalmente era molto decisa, quasi severa; aveva una spiccata personalità probabilmente accentuata dalla sua esperienza di staffetta partigiana.

Quando diceva “Dettato!” scendeva il silenzio, dalle cartelle di carton-pelle si prendeva il quaderno a righe; in automatico si mettevano in cima alla pagina data e luogo, con calma e cercando di scrivere bene la dicitura dettato.

Io, per sicurezza mettevo una penna di scorta in cima al piccolo banco di formica verde, sulla parte nera dove c’era ancora il foro per inserire la boccetta di inchiostro, retaggio dei tempi nei quali si scriveva ancora con la china.

Si posizionava la sedia per poter scrivere composti: non erano ammesse posture disordinate, così come non era ammesso tenere in mano la penna in maniera scorretta. Ad alcuni questa apparente rigidità pareva esagerata, in realtà la maestra ci stava donando la possibilità di scrivere a lungo senza intorpidimenti di sorta. Negli anni a venire e nel prosieguo degli studi per chi aveva assimilato questi automatismi prendere appunti sarebbe stato meno faticoso e molto più proficuo.

Ci scrutava la maestra, prima di cominciare la dettatura, quando tutti eravamo pronti iniziava: inesorabile e costante leggeva dal suo vecchio e sgualcito quadernino nero con le pagine bordate di rosso.
Non partiva mai con parole difficili, ma quando queste arrivavano non variava la velocità per facilitarci: era un esercizio impegnativo e dovevamo imparare a gestire la pressione.

Le consegne del dettato erano precise: dovevamo mantenere una grafia il più possibile costante, scorrevole e più che leggibile, direi gradevole (sì bisognava scrivere bene); non erano ammessi errori, si doveva andare a capo correttamente e riempiendo gli spazi della pagina.

Un solo errore e la V rossa di visto andava a suggellare il mancato superamento della prova. Solo quando tutto era giusto veniva valutata la grafia e si partiva da giudizi che potevano andare dal benino al benissimo, addirittura per prestazioni eclatanti dal bravo al bravissimo!

Posso garantirvi che già uscire dal visto era un risultato che ripagava della tensione, arrivare ad un bene dava un’iniezione di entusiasmo! Ricordo anche che vivevamo il fallimento della prova in maniera costruttiva, non era una croce troppo pesante, semplicemente si cercava di migliorare.

Eravamo sottoposti a piccole grandi sfide che una volta superate ci davano sicurezza e autostima, oltre a basilari strumenti che ci avrebbero permesso di affrontare la vita. Non ridete scrivere bene e saperlo fare sotto pressione è una competenza che aiuta!


Dopo il dettato per dare sfogo alla tensione accumulata la maestra come un rito puliva accuratamente un vecchio vinile, lo metteva sul giradischi di classe e partivano le note di canzoni partigiane che con seria giovialità ci faceva cantare; erano gli intermezzi nei quali diveniva meno severa.
In quegli attimi chi aveva ottenuto un buon risultato si rilassava beato, chi doveva ancora superare il muro del visto aveva modo di rifiatare per affrontare la sfida successiva che poteva essere la coniugazione dei verbi o la padronanza delle tabelline.


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